martedì 3 agosto 2010

Sogno di una notte di mezza estate

Ultimamente trovo nella lettura un appagamento e nella scrittura un'autentica gioia. Ammetto che nei passaggi ostici dei romanzi che scrivo mi sia ritrovata più volte a sbattere la testa per trovare l'anello di giunzione tra un avvenimento e l'altro, la giusta consecutio di causa ed effetto per gli eventi che descrivo, con la conseguente maturazione dei personaggi e via dicendo. Tuttavia, è quando scrivo che sento di liberare quella parte di me a lungo repressa, che scalpita per esprimersi.
Ho riletto alcuni paragrafi su cui ho penato e la resa mi soddisfa, almeno per ora, nonostante siano stati i pezzi decisamente più impegnativi. Ovviamente il labor limae deve ancora arrivare, ma per una prima stesura, sono più che contenta.

Purtroppo, ancora ci sono persone che questa pulsione non la capiscono. La vedono come un dannato capriccio, un qualcosa che "è da bambini", "ma quando cresci?" Fortunatamente non è nessuno della mia sfera affettiva, altrimenti i suoi commenti avrebbero lasciato una cicatrice molto più profonda e marcata. Tuttavia è sempre una spina che ti entra nell'animo e ti ferisce, più di quanto immagini. Perché ti fa vacillare, anche se sei la persona più convinta del mondo. Specie se si è come me, che ha mollato un lavoro sicuro pur di inseguire il proprio obiettivo.

E' passato un mese e mezzo, ho scritto 6 capitoli e mezzo del mio romanzo (totale: una novantina di pagine), facendo pausa solo nei weekend per poter concedere il giusto spazio agli affetti, alla vita sociale e alla famiglia. Molti mi dicono che sto andando come un treno, ma a me pare sempre poco. Sarebbe bello poter buttare giù una scena con la stessa vivida nitidezza con cui me la sono immaginata, far sì che siano le parole stesse a scivolare dalla testa alla penna senza dover stare ad arrovellarsi troppo. Sarebbe bello, sì, sarebbe un sogno. Però, forse, nemmeno così sarebbe bello. Le cose troppo facili, alla fine non danno soddisfazione. Anche se sarebbero molto, molto comode.

E' in questi casi che devo "ricordare". Ricordare come "sognare". Come stanotte.

Sono uscita in balcone. C'era un forte temporale, valle e montagne erano uno spettacolo di tuoni e lampi. La pioggia scrosciava da parecchio, ma non riuscivo a smettere di stare appoggiata alla ringhiera e guardare quel concerto naturale. Ho chiuso gli occhi e ho immaginato. Sognato, da un certo punto di vista. Ho provato a calarmi nei panni dei miei personaggi e provato a immaginare cosa potessero provare di fronte a uno scenario simile, in un contesto completamente diverso, in uno stato d'animo completamente differente. Immergersi completamente, finché non si ha la sensazione di averli accanto. Di sentirli parlare, pensare. Sentire i loro discorsi, le loro preoccupazioni; ciò che hanno vissuto - ciò che io ho deciso che dovessero vivere, diventando quindi partecipe di tutto il bagaglio che si portano dietro - e di ciò che affronteranno.
Il pensiero pian piano è diventata una scena, un evento, di cui di lì a breve ho preso nota. Eppure sto ancora qua fuori a pensare, senza una meta precisa. E' semplicemente la mente che vaga. E un solo desiderio - un sogno - che martella la mente: poter condividere quelle emozioni con altri. Far sì che possano provare lo stesso, quando leggeranno.

E intanto, rimango a guardare il temporale. Sorrido nel pensare che, in un aspetto, siamo simili. Anche quello ha una voce che deve sfogare, di tanto in tanto.