venerdì 22 ottobre 2010

On the road again

Trolley preparato, sveglia puntata alle 04.30 di domani mattina. Partenza alle 5.30. A Milano, un attesa di un'ora e mezza, poi si salta sul treno e vai a Bologna, 3 ore con il regionale perché non lavorando devo economizzare qualsiasi cosa. Poi ancora un'attesa di più di un'ora e finalmente un locale che mi porterà dal mio ragazzo. Arrivo praticamente dopo dieci ore complessive di viaggio. Questo, anche più volte al mese. Quando lo dico, la domanda che più spesso mi viene rivolta è "ma come fai?" e come condimento: "Te sei pazza."

Pazza? Di sicuro, ma mi piaccio così. Come faccio? Sinceramente non lo so. Me lo sono chiesto. La risposta forse è che sono un tipo a cui piacciono i viaggi, specie quando mi metto in gioco. Ho fatto alcuni viaggi in macchina in compagnia di amici, roba da 4-5 ore stipata nel sedile di dietro con i bagagli addosso. Eppure per me era una gioia fermarsi in autogrill, mangiarsi un trancio di pizza o un panino, anche seduti sulle scale quando non c'era un tavolo o un posto in piedi. Il caffé concesso a metà strada, il cappuccino al bar della stazione, salutando quello che me lo fa e scambiando due chiacchiere.
L'ho sempre vissuta come un'avventura. Ecco, può definirsi così. Infantile? Chissenefrega. E' a mio beneficio.
Non sono ricca da poter girare il mondo, ci saranno posti che non vedrò mai nella mia vita. Quindi cerco di rendere particolare ogni piccolo spostamento che faccio. A me piace stare nel treno e aspettare che mi porti in un altro posto. Più che la destinazione, a volte le prime emozioni le si prova durante il viaggio.

Tanti miei conoscenti si lamentano anche prendendo l'Eurostar. Arrivano doloranti, distrutti. Per me, andare al Lucca Comics significa fare cinque cambi. Cinque treni con distacchi minimi e una caterva di bagagli dietro. E quando arrivo là e sento gente che arriva da Firenze e sembra che ha percorso l'Equatore a piedi, non so perché ma rido. Senza scherno eh, ma rido perché quella che per me è normalità loro me la fanno vedere nell'ottica di un'impresa titanica.

Abitudine, forse? Da bambina andavo dai miei nonni in Sicilia. Vagone letto, ci volevano 18 ore, si partiva alle nove e si arrivava il giorno dopo. Forse è per questo.
Ho trascorso persino il mio compleanno tra una stazione e l'altra senza per questo rimanere amareggiata. Persino per andare nella palestra dove pratico scherma mi macino un'ora di andata e un'ora di ritorno in macchina, due volte alla settimana. Eppure non mi pesa.

Non sopportate la noia del treno, dite? Bah. Quando si viaggia a lungo, basta organizzarsi. L'Ipod. Un bel libro. L'Eepc, perché l'ispirazione può arrivare anche in sala d'attesa, anche quando sei seduta sul muretto della stazione in attesa che arrivi il tuo treno. Quando sei sola senza nessuno che conosci attorno, nessuna distrazione concessa, hai solo una cosa da fare: pensare.

E badate: sto parlando di viaggiare da sola. Quando sono in compagnia le cose cambiano, e in meglio.

Non sono nata in una grande città né anelo a viverci. Non sono abituata alla folla. Quando sono in stazione, in quel turbinio di persone, sola, mi salta addosso quella voglia di sapersela cavare da sola. Non so definirla altrimenti. E' come un'eterna sfida. Forse è proprio l'idea del viaggio, del mettersi in moto, nel "mettersi in gioco" fuori da casa propria, fuori dai propri schemi, che mi elettrizza.


Chiarisco un concetto: non sto scrivendo questo post per "dare una lezione." E' per rispondere a una domanda. Quando racconto dei lunghi viaggi che faccio, molti mi dicono "perché lo fai?" E la semplice risposta è: "perché no?"


sabato 9 ottobre 2010

Non è questo il giorno [cit.]

Ci sono giorni in cui l'ispirazione è un fantasma, qualcosa che ti aleggia attorno, che rende nota la sua presenza ma non ti tocca: ti passa attraverso le membra, impalpabile, immateriale, senza che su di te rimanga traccia alcuna.

Ci sono giorni in cui le parole vergate sulla carta, o impresse su uno schermo, sembrano uscire a fatica; giorni in cui snocciolare una frase che abbia una certa incisività sia difficile come masticare del pane raffermo: più ci provi e più ti si sloga la mascella cercando di ammorbidirlo.

Ci sono giorni in cui guardi quella pagina bianca sperando in un miracolo; giorni in cui senti le tue speranze vacillare, in cui hai quasi la sensazione di non essere nemmeno all'altezza di raccontare la storia che hai in mente, come se il tuo stile fosse sufficiente a svilirla.

Ma non è questo il giorno.

Perché c'è quel giorno, quella notte, quell'istante, quel lampo di vita in cui l'ispirazione ti siede accanto, sbirciando il foglio dove scrivi e sussurrandoti all'orecchio quell'idea che nemmeno avevi preso mai in considerazione, quell'intreccio particolare che dà più salsa alla storia che stai narrando e la rende più avvincente, quel dettaglio che ti era sfuggito e ti si presenta come uno sbocco fenomenale per far evolvere la storia in maniera naturale.
Quel palpito che ti fa scrivere la parola perfetta al punto giusto, in modo che si imprima negli occhi del lettore e rimarchi quel particolare concetto che vuoi che non scordi mai.
Quel momento in cui, cullato dalle note di una musica che sembra imprigionare in sé l'essenza di un mondo, lasci che le dita si muovano da sole, che i pensieri diventino parole e si riversino sul foglio che stai riempiendo sempre più, come fiumi che concludono la loro folle corsa nell'immenso oceano.

E' adesso.